Manifesto
Esistono due tipi di persone, quelli che amano raccontarsi una storia e quelli che si raccontano storie. I primi godono di quello che fanno, anche quando nuotano controcorrente o quando non hanno il minimo consenso garantito; viaggiano liberi e non importa verso dove. Viaggiano e raccontano. Assorbono e respirano.
Gli altri no.
Se vi è capitato almeno una volta nella vita di gestire la peggiore delle ribellioni possibili, quella contro voi stessi, sapete cosa significa alzarsi una mattina, guardarsi allo specchio, e chiedere a quel tipo che vi sta osservando coi vostri stessi occhi: “Ma tu chi sei?”.
Quelli che amano raccontarsi una storia si detestano se non si riconoscono, non scendono a patti con un lifting della coscienza. Non hanno paura di cambiare, anzi la calma piatta gli fa venire il mal di mare, e se proprio avessero potuto fare un patto col diavolo non avrebbero mai contrattato un’eterna giovinezza, bensì una variopinta maturità, un’intensa vecchiaia. Un “ritratto di Dorian Gray” alla rovescia, insomma.
Sono gli inquieti, quelli che temono la tempesta ma che non potrebbero viverne senza, quelli che non si innamorerebbero mai mentre sono felici, quelli che tengono il cuore lontano dal suo posto consono e lo stipano in gola, nello stomaco, nel cervello a seconda della debolezza da assecondare. Nulla è mai stato creato senza inquietudine.
Credeteci, un essere umano perfettamente pacificato, placido in modo rotondo, è un soprammobile sul comò di esistenze da salotto, che è la stanza meno interessante e più inutile della casa.
Quanto abbiamo dormito male… quante notti insonni inseguendo il sogno giusto. Perché gli inquieti sanno bene che i sogni veri sono quelli che ti prendono a occhi aperti. Quindi vegliano su un futuro che è come un pargolo inquieto, nell’attesa che l’idea giusta li strappi da quell’inutile letto e li accompagni durante il terzo caffè prima dell’alba.
Gli altri no.
Siamo deboli, ma di una debolezza che è un manifesto contro la forza ostentata. Siamo porte aperte non ai conquistatori, ma ai conquistati. Siamo rifugio e fucina, laboratorio e magazzino. Siamo deboli dinanzi alla luce più abbagliante che è quella del bello. Il bello non è una democrazia ma, come diceva Oscar Wilde, “regna per diritto divino”.
Quelli che amano raccontarsi una storia affastellano la loro vita di domande, come se una frase senza punto interrogativo fosse monca. Il viaggiatore che dubita pensa due volte a ogni bivio e in tal senso coniuga perfettamente (con leggiadra involontarietà) l’esigenza dell’avventura con quella della prudenza. In fondo un bivio ben ponderato è un bel modo per cristallizzare la magia di un ricordo.
Noi ricordiamo tutti i bivi della nostra vita, soprattutto quelli più anonimi, magari scarsamente illuminati, che sono anche i più pericolosi.
Gli altri no.
Ecco perché esistono due tipi di persone, quelli che amano raccontarsi una storia e quelli che si raccontano storie.
Perché i primi vivono vite scomode ma affascinanti, dormono poco e sognano assai, viaggiano anche restando fermi e hanno punti fermi pur vivendo in un divenire che divora il cibo non ancora sfornato e prosciuga il giardino appena innaffiato. Siamo quelli che prima di pensare all’abito che ci accompagnerà in una giornata qualunque oppure in un momento cruciale, ci curiamo di scegliere il pensiero più idoneo da indossare. Da soli o in compagnia, tristi o felici, sappiamo che tutto ciò che abbiamo costruito è stato fatto con fatica. E sappiamo che la fatica non è garanzia di riuscita, ma antidoto. Contro il pregiudizio, contro l’approssimazione, contro la forza debole di chi chiude e si chiude per paura del confronto.
L’eleganza è un abito mentale ancor prima che fisico. È un modo laico per celebrare un rito di pacificazione sull’altare della tutela delle diversità in cui sale la voce di un coro: non è vero che il diverso va cancellato solo perché è diverso, chi lo ha detto che è lui il diverso o non tu?
Noi siamo imperfetti e non sogniamo altro che esserlo sempre un po’ meno. Perché sappiamo che il cambiamento è una meravigliosa, eterna sofferenza, mentre la resistenza al cambiamento è sofferenza e basta.
Gli altri no.